La drammaturgia del sacro nella Milano borromaica – testo della lezione
CORSO DI ALTA FORMAZIONE. LUOGHI DI MEMORIA CRISTIANA NELLE TERRE SANTAMBROSIANE. MILANO BORROMAICA.
Istituto Superiore di Scienze Religiose. Novembre 2020-gennaio 2021
Sommario
- Da Varallo a Milano. Un teatro di comunità. Dal «Gran teatro montano» al teatro di città.
- 2.Teatro, teatralità, drammaturgia. Una precisazione terminologica.
- La distanza dal teatro profano e la valorizzazione del teatro del sacro: la posizione di Carlo Borromeo.
- Da Sant’Eustorgio al Duomo. Itinerari per la Milano dell’età borromaica: Lungo la “via sacra” verso il cuore della città.
- I luoghi e le forme della drammaturgia del sacro.
- 6 Brera. Il quartier generale dei Gesuiti, protagonisti della drammaturgia educativa e festiva. Il teatro di formazione e la tragedia spirituale; gli apparati del rito teatralizzato.
- Sant’ Alessandro. Drammaturgia educativa e apparati festivi sul modello dei gesuiti.
- Il Convento di Sant’Angelo, Santa Maria della Pace. Un cenno sul teatro mentale per la meditazione dei francescani.
- Il salone del palazzo ducale. tra sacro e profano. L’esperienza di un comico dell’arte: Giovan Battista Andreini.
- Riepilogando.
1 Un teatro di comunità. Dal “gran teatro montano” al teatro di città. Da Varallo a Milano.
Avvio questa lezione riallacciandomi alla precedente e immaginando un gruppo di turisti di oggi che, attraverso una attività ludica e di colta evasione, come una visita ai luoghi della memoria di antiche forme di teatro del sacro, guadagna un’apertura di conoscenza e di esperienza di cosa è stata e di cosa può essere l’esperienza della drammaturgia di comunità.
Il Sacro monte (Varallo, in particolare) come avete visto, è una sorta di teatro globale in cui, in virtù del realismo, le immagini, che attualizzano i misteri, li rendono presenti agli spettatori. E’ come scrive Giovanni Testori un «gran teatro montano», un “teatro in figura”.
Il turista di oggi ne vede le vestigia, ma intuisce che esse erano al centro di una complessa esperienza di comunità, che chiede forse di essere rilanciata in forme moderne.
Era un percorso didattico (conoscenza attraverso l’accessibilità delle immagini), era un percorso devozionale, attraverso l’identificazione empatica con gli episodi della Sacra Scrittura, era un percorso di fruizione congruente con le forme tradizionali popolari della lauda, della Sacra Rappresentazione, ed era un intreccio fra la meditazione personale guidata dal clero e la dimensione comunitaria.
Il progetto iconografico degli artisti, pur promosso e strettamente controllato soprattutto in età borromaica dall’autorità ecclesiastica, è radicato nella iniziativa della comunità locale, la sua fruizione è legata al movimento nelle cappelle tridimensionali dei pellegrini impegnati in un percorso di trasformazione, di conversione che è proprio dell’esperienza rituale e dell’esperienza teatrale che su quest’ultima si modella.
Il pellegrino-spettatore, in uno spazio e in un tempo forte, liminale rispetto al tempo ordinario, si proietta e si identifica coi personaggi e con gli episodi che incontra, ne coglie l’affinità con la propria umanità quotidiana, ma anche il trascendimento della quotidianità nella messa a tema esplicita del senso ultimo, radicale dell’esistenza, del dolore, della morte.
Così, ad esempio, con quel condannato [fig. 1], con quel vecchio che guarda [fig. 2 e 3], con quella madre [fig. 4 e 5].
2 Teatro, teatralità, drammaturgia. Una precisazione terminologica.
Dai monti il nostro gruppo scende in città e entra nella grande Milano percorrendo la “via sacra”. Ma nel tragitto dovrà fermarsi a riflettere brevemente sulla nozione di teatro e di drammaturgia, per sfatare le precomprensioni che la legano convenzionalmente a un sistema teatrale storicamente definito.
Teatro infatti non è solo la rappresentazione scenica di un testo drammatico fatto di dialoghi e didascalie in uno spazio deputato, nel tempo dello svago, ma è una tessitura compiuta e coerente di codici e materie espressive (insomma un “testo performativo”) che si esplica attraverso un corpo nel perimetro del «come se» della scena, in un incontro fisico, diretto e irripetibile con il gruppo, in un contesto condiviso da attori e spettatori, in un tempo festivo. Teatro dunque come luogo dell’incontro, dell’interazione, del festivo e dell’istituzione simbolica del senso.
Drammaturgia non è solo l’atto di scrivere testi per il teatro o l’insieme di testi scritti per il teatro, ma è l’insieme delle composizioni e delle invenzioni che compongono lo spettacolo: il tempo, lo spazio, l’attore, la parola detta, i codici visivi e auditivi tutti, le modalità di fruizione e di rapporto con gli spettatori.
Teatralità è quella dimensione che si lega alle forme rituali paraliturgiche e civili importante in ogni cultura, ma in particolare nell’epoca di cui qui ci occupiamo, quando il teatro come istituzione e professionismo è in fase ancora iniziale e non ha un peso preponderante nel complesso sistema rappresentativo, in cui il nucleo efficace del rito religioso si dilata in una amplificazione dell’immagine visibile in senso drammaturgico e spettacolare e in cui anche il termine «theatrum» ha una oscillazione semantica e polisemica: «theatrum» è l’apparato per l’accoglienza di un grande prelato, per le esequie di un sovrano, è l’apparato per le solenni esercitazioni spirituali spirituali contrapposte al carnevale profano, è il teatro d’imprese, è il teatro della metafora che si affaccia come il sipario che si apre sui sensi secondi, secondo Emanuele Tesauro.
Dunque: il teatro e la teatralità nella Milano borromaica e barocca. Essi in generale appaiono non come una modalità espressiva e comunicativa fra le tante, ma come la forma comunicativa fondamentale fra gerarchie, ceti, istituzioni e individui. Essi sono campo di scambio dei miti, dei valori, degli affetti, dei concetti, delle idee forza dell’epoca, riflesso e volano dell’evoluzione della mentalità.
La sensibilità teatrale si insinua nelle pratiche educative, devote, suasorie, cerimoniali, liturgiche, ludiche, artistiche. È una grande mediatrice di appartenenza in una società ancora organizzata per associazioni (congregazioni, confraternite, accademie) molte delle quali collegate con i centri di potere ecclesiastico e civile e che sono poli di committenza, di elaborazione e di irradiazione culturale.
3. La distanza dal teatro profano e la valorizzazione del teatro sacro: la posizione di Carlo Borromeo.
Milano, come sappiamo, è un avamposto e un laboratorio di attuazione della Riforma cattolica uscita dal Concilio di Trento.
Carlo Borromeo ne realizza lo spirito non tanto con atteggiamento inquisitoriale, quanto con una severa, paterna, tenace assiduità di guida e di capillare amministrazione che tocca anche il teatro secondo un progetto di disciplinamento che ha due facce: a) il momento repressivo dei comportamenti scorretti, b) il momento propositivo della promozione dei riti e delle devozioni in cui egli manifesta una straordinaria sensibilità per le immagini e i suoni e un vero e proprio talento «registico».
Attraverso i decreti e la predicazione Borromeo si adoperò per separare il sacro dal profano, per impedire che i due piani si sovrapponessero, che il tempo e lo spazio festivo dell’uno invadesse il tempo e lo spazio festivo dell’altro, che la giurisdizione dell’uno prevaricasse sulla giurisdizione dell’altro.
È ben noto il braccio di ferro con l’autorità civile nella persona del governatore d’Ayamonte, è nota la questione del rapporto coi Comici dell’Arte della Compagnia dei Gelosi e della soluzione dei controlli preventivi degli scenari degli spettacoli da rappresentare a Milano (Borromeo li firmò a certe condizioni e garanzie), ed è nota l’avversione di Carlo per le «pazzie carnevalesche» e la battaglia per ridimensionare il Carnevale ambrosiano che durava fino a quella che sarebbe diventata a partire dal 1580 la prima domenica di Quaresima.
Carlo Borromeo è altresì noto per il suo impegno per il governo della festa folclorica, carica di elementi magici e pagani, per i divieti che colpirono la tradizione della Sacra Rappresentazione con le sue contaminazioni con elementi profani e contaminazioni inventate sovrapposte alle Sacre scritture. In generale è nota la sua avversione per le «mascare, le comedie, i giochi paganeschi, i balli, i banchetti, gli eccessi delle pompe», come dice nel Memoriale rivolto ai milanesi usciti dalla peste nel 1579.
Colpite erano soprattutto le «maledette e esecrande maschere». Se il bersaglio è la scena come menzogna, dissipazione, fasto, all’opposto favorita e promossa è la scena come celebrazione «docte et graviter», come meditazione collettiva su una condizione umana segnata dal dolore e dalla morte, ma salvata dall’irruzione del divino nella storia, dall’elaborazione della coscienza tragica, legata alla consapevolezza del limite e della morte (onnipresenti nell’epoca) in coscienza di gloria.
4 Da Sant’Eustorgio al Duomo. Itinerari per la Milano dell’età borromaica. Lungo la «via sacra» verso il cuore della città.
È questo lo spirito che informa la drammaturgia del sacro nella Milano dell’epoca. Dobbiamo immaginarla a partire dai dipinti, dalle descrizioni, dalle stampe, dalle incisioni che ci sono pervenute e di cui sono ricche le nostre biblioteche storiche (prime fra tutte la Biblioteca Nazionale Braidense e la Veneranda Biblioteca Ambrosiana) mentre percorriamo con il nostro gruppo le vie della città
Il primo percorso è lungo la «via sacra», il tragitto, fisso dopo San Carlo, per gli ingressi degli arcivescovi, attraverso uno dei principali assi viari di penetrazione della città. Tappe salienti erano la chiesa di Sant’Eustorgio dove iniziava la cerimonia ufficiale, la chiesa di San Lorenzo, il Carrobbio, il tempio civico di San Sebastiano.
La drammaturgia dell’ingresso, soprattutto se si paragonano il modello medievale con il modello di Carlo e con il modello dei successori, rivela, nel suo impianto, il senso simbolico.
Carlo, pur frenato da Monsignor Ornaneto che sostiene la necessità di una moderata pompa adatta alla carica ecclesiale, valorizza il ruolo di pastore più che di principe, sfila accanto alla massima carica dello Stato di Milano, per marcare la distinzione e la cooperazione nel governo della città in due sfere diverse di giurisdizione [fig. 6]
In prosieguo di tempo e ormai sul finire dell’era propriamente borromaica (anche se la sua onda lunga permane) le cose cambiano.
La drammaturgia dell’ingresso si arricchisce di elementi e di significati. Emblematici sono gli apparati per la festa di ingresso di Cesare Monti nel 1635, ben studiati da Giovanna Zanlonghi. Fondamentale è l’apporto dei gesuiti, ormai accreditati come grandi tecnocrati ufficiali per le celebrazioni cittadine. Essi firmano gli archi di Porta Ticinese, di ingresso al Duomo, e l’allestimento di San Sebastiano.
La drammaturgia si declina nel movimento lungo le tappe iconografiche, nella sinergia dei linguaggi e negli effetti sinestesici, dei suoni, delle parole che interpellano lo spettatore attraverso le iscrizioni, nella partecipazione del popolo che affolla in due ali in movimento il percorso.
Il progetto retorico vede, nella statuaria, nella disposizione degli ordini e delle facciate, l’impianto culturale, caro ai gesuiti, del classicismo cristiano, cioè della trasformazione delle figure della storia e della mitologia antica in simboli del programma e dell’utopia attuale.
Così, nell’arco innalzato a Porta Ticinese, appaiono le due coppie storiche e mitologiche Marte-Pallade; Cleopatra-Cesare. Pallade si oppone a Marte, la conquista della sapienza e della virtù si oppone alla guerra, Cleopatra scarmigliata in piena calamità si inginocchia a Cesare che governa e fa animo al nocchiero nel mare in tempesta, mostrando un volto paterno e forte, atto a dare appoggio e sicurezza a un mondo travolto. E l’epoca (siamo appunto nel 1635) era ben così. Una drammaturgia allegorica fa leggere Milano, l’arcivescovo, i pericoli e le aspettative dietro alle figure e alle iscrizioni.
Il tutto in un orizzonte di filosofia della storia e di biblica lettura che fa leggere le vicende del passato come prefigurazione dei cammini successivi in un’ottica provvidenzialistica.
Siamo nel pieno della cultura gesuitica che imprime il suo segno nelle più significative forme della drammaturgia festiva dell’epoca e cui accenniamo ora per passare poi al capitolo importante della drammaturgia educativa.
5. I luoghi e le forme della drammaturgia del sacro.
È ricca la gamma delle forme della drammaturgia del sacro nell’età borromaica, dei riti teatralizzati si snodano nel cuore della città, testimoniate da dettagliate descrizioni. Su di esse, innestate su una lunga tradizione precedente, c’è prima il segno disciplinatore di Carlo Borromeo, e in prosieguo di tempo la tendenza trasformatrice del gusto barocco e di un minor rigore morale. Ne cito alcune e mostro qualche immagine tramandata da quadri, stampe, incisioni : le processioni come quella del Santo Chiodo [fig. 7 ], la grandiosa traslazione di San Simpliciano, successore di Sant’Ambrogio, e di altri quattro santi arcivescovi milanesi e di tre martiri che si svolse a Milano nel 1582 coinvolgendo tutta la città in un percorso spettacolare partito da San Simpliciano di apparati, padiglioni, porte trionfali fino alla grande facciata posticcia del Duomo realizzata da Pellegrino Tibaldi. Cito in genere le traslazioni delle reliquie [fig. 8] esempio della grande capacità di invenzione rituale e spettacolare di Carlo; le feste di canonizzazione come quella di S. Ignazio e S. Francesco Saverio in Piazza San Fedele del 1622 [fig. 9]; le solenni pompe funebri con le “macchine”, cioè i catafalchi praticabili in fondo alla navata del Duomo, come il catafalco per Filippo III nel Duomo del 1621 [fig. 10]; le manifestazioni per il Venerdì Santo come la grandiosa e solenne processione dell’Entierro [fig. 11]; il «Theatrum» delle Sacre Scritture, sontuosi apparati per le solenni esercitazioni spirituali tenute in Sant’Alessandro per eccitare gli animi alla pietà e per opporre « mirifica apparatus pompa» un carnevale sacralizzato «ad avertendos laicorum animos a criminum sordibus, quibus Bacchanalium presertim dierum otiis, immundissimus humani generis adversarius eos tentat inquinare».
6. Brera. Il quartier generale dei Gesuiti, protagonisti della drammaturgia educativa e festiva: il teatro di formazione e la tragedia spirituale; gli apparati del rito teatralizzato.
Il cenno fatto ai riti teatralizzati nella città ci introduce al centro per eccellenza di elaborazione della drammaturgia del sacro: l’ambiente gesuitico nel suo luogo di elezione, il collegio di Brera.
Lo volle il Borromeo che, durante la sua permanenza a Roma, era stato colpito dal Collegio Romano, visitato nel 1562 quando concepì di fondare a Milano una simile istituzione. Il collegio consolidò la sua presenza e la sua struttura nel 1567 quando fu trasferito nella residenza di San Fedele e poi con l’acquisizione della prepositura di Santa Maria di Brera, già convento dell’ordine soppresso degli Umiliati. Fu la sede definitiva cui si accompagnò l’istituzione della casa professa a San Fedele.
La Ratio studiorum nelle sue tre edizioni, l’ultima delle quali è del 1599 (le altre sono del 1586 e 1591) prescrive e legittima l’insegnamento della drammaturgia nell’ambito della classe di retorica e delle accademie interne al collegio e la rappresentazione dei risultati del lavoro congiunto del magister e degli allievi in due momenti dell’anno: la renovatio studiorum con la distribuzione dei premi e il carnevale.
Recitavano gli allievi, tutti maschi naturalmente, appartenenti ai ceti nobiliari e dirigenti della città, con cui i gesuiti intrattenevano un rapporto privilegiato, svolgendo di fatto un ruolo di mediazione fra i poteri e praticando una autonomia che talvolta li mise in conflitto con l’arcivescovo.
Recitavano in latino, esibendo al pubblico dei parenti e invitati illustri della città le competenze retoriche, oratorie, rappresentative, la formazione ideologica e spirituale nella linea di un umanesimo cristiano che coniugava classicità, Sacra Scrittura, teologia, nella prospettiva di un’antropologia unitaria che non sacrificava le ragioni della fisicità e dell’immaginazione e nell’orizzonte di una filosofia della storia che leggeva le vicende umane pur segnate dal dolore, dalla morte, dalla colpa in un itinerario di salvezza e di provvidenza.
Sarà proprio questa impostazione a ispirare un genere nuovo di dramma che, contaminando «moralité», sacra rappresentazione e tragedia classica antica, si potrebbe chiamare tragedia spirituale.
La «Ratio studiorum» del 1599 così recita:
Poterit interdum magister brevem aliquam actionem, eclogue scilicet, scenae, dialogive discipulis argumenti loco proponere, ut illa deinde in schola distributis inter ipsos partibus, sine ullo tamen scenico ornatu exhibeatur, quae omnium optime conscripta sit.
Il teatro gesuitico avrebbe avuto a lungo una grande importanza e fortuna. Alla lingua latina sarebbe subentrata la lingua volgare e le indicazioni che raccomandavano le restrizioni sceniche sarebbero state largamente disattese nella prassi dei collegi, dando spazio a allegorie, apparati, macchine, esibizioni di abilità coreutiche e giochi d’armi nei cori o intermezzi. Questo soprattutto nel secondo polo educativo che a partire dagli anni ottanta del Seicento entrò in funzione sotto la direzione dei gesuiti: il Collegio dei nobili, collegio-convitto che avrebbe ospitato i rampolli della migliore nobiltà, educati nelle lettere e nelle arti cavalleresche. Il Collegio dei nobili che era sito a Porta Nuova era stato fondato da San Carlo ed era stato diretto fino ad allora dagli Oblati. Esso disponeva anche di un teatrino e dall’ultimo decennio del Seicento e fino alla soppressione dell’ordine nel 1773 avrebbe concentrato la maggior parte dell’attività teatrale gesuitica: arricchimento dei generi, apertura ad autori esterni, uso della lingua volgare.
Il progetto formativo rivolto ai giovani di elevata condizione destinati a essere classe dirigente nelle carriere civili, ecclesiastiche, militari nell’orbita dell’impero spagnolo, si esprime preminentemente nella pedagogia praticata nei collegi gesuitici.
Di questa attività rimangono testimonianze indirette che si possono vedere nella Biblioteca di Brera.
Significative sono in particolare le Annuae litterae Societatis Iesu, raccolte generali delle lettere inviate dai distretti provinciali della Compagnia al preposto generale. Si tratta di un tipo di documento ufficiale che attesta la valorizzazione costante e in progressivo sviluppo del momento performativo nella pedagogia del Collegium Braidense.
Un’altra fonte, sempre visionabile nella Biblioteca di Brera, sono gli argomenti a stampa, specie di programma di sala con personaggi e interpreti, sommario, cori. Intero e manoscritto ci resta la tragedia Hermenegildus di Emanuele Tesauro, rappresentata a Brera il 26 agosto del 1621 e oggi conservata alla splendida Biblioteca Reale di Torino [fig.12 e 13].
Basta scorrere i titoli di quanto ci è pervenuto o in forma di notizia o di argomenti o di testi, relativo al periodo qui considerato (dagli anni sessanta del Cinquecento agli anni trenta del Seicento) in area milanese, per rilevare quanto gioca la memoria della tradizione nella scelta dei temi della drammaturgia in area gesuitica: Ergastus, Conversio Augustini, Maria Stuarda reina Scotorum, Sapientia victrix, Ermenegildus , Faustinianus, Manlio [fig. 14 ].
Il prototipo di questa forma di teatro può essere considerato Ergastus di Francesco Benci, gesuita, professore di retorica al Collegio romano, esponente di spicco di quella linea di transizione dall’oratoria alla maniera ciceroniana a un’oratoria neo-ciceroniana in grado di mediare l’eredità classica con l’ispirazione cristiana e le nuove istanze controriformistiche. L’opera pubblicata nel 1587 è conservata nella Biblioteca di Brera. Opera in versi latini, monologhi e dialoghi.
La vicenda è l’itinerario di caduta e di ravvedimento di Ergastus, giovane, che rischia di deviare dalla retta via, ribelle agli insegnamenti del maestro e insofferente all’esempio del virtuoso fratello Aristus che «querulus» lo tallona.
Sembra che il male abbia la meglio, ma ecco che il giovane si ravvede.
La caduta si rovescia in salita verso la virtù non senza la procedura conforme alla morale cattolica e alla ottimistica spiritualità gesuitica: invocazione di Dio, confessione, ammissione delle colpe, pentimento, perdono e ripresa del cammino.
Non più tragedia alla maniera erudita della letteratura rinascimentale, non più Sacra rappresentazione alla maniera della drammaturgia medievale, e tuttavia di esse ben memore, è un non meglio definito «drama», che sta alle origini di un percorso teatrale in un’ottica drammaturgicamente nuova e secondo un progetto formativo coerente con il nuovo progetto storico e con una nuova declinazione della memoria della tradizione.
Un testo chiave, per comprendere il rilievo e l’evoluzione del nuovo genere, di così grande fortuna sulle scene del collegio è Hermenegildus di Emanuele Tesauro, Magister rhetoricae presso il Collegio di Brera. Esso vi fu rappresentata il 26 agosto del 1621 non senza difficoltà da parte del generale dell’ordine Vitelleschi cui si deve probabilmente il fatto che dell’argomento, che dovette essere approntato per l’occasione secondo la consuetudine, non rimanga traccia.
Tesauro è una personalità nel collegio, è coinvolto nelle discussioni politico-religiose dell’ambiente gesuitico il quale conta ed è influente nella movimentata vita cittadina del momento. C’è un governatore aggressivo, anche più della prudente corte spagnola dove il sovrano Filippo III è morto da poco e c’è una fase di passaggio strategico. Tesauro stesso qualche mese prima della rappresentazione prevista al collegio ha celebrato il sovrano morto firmando il progetto retorico dell’apparato per le solenni esequie in Duomo. Temi caldi e conflittuali per occasioni non marginali che non è escluso abbiano inciso sulle riserve di alcuni della Compagnia verso il suo testo drammatico.
La vicenda è quella del principe visigoto, martire cattolico, che, resistendo alle pressioni del padre, non si piega a una conversione di comodo alla fede ariana per ambizioni di regno e, ingannato dal fratello Recaredo, è condotto a morte, ma è glorificato con la santità.
In filigrana si riconosce la memoria scritturale: Hermegildus è figura Christi e martire; i fratelli rivali richiamano Caino e Abele, Gosvinda seduttiva su Leovigildus, richiama Eva o Erodiade che vuole la testa del suo incorruttibile antagonista, il “processo” e la condanna per contumacia è l’archetipo della resistenza e della condanna di Hermenegildus.
È appena il caso di ricordare che lo scenario della Sacra Scrittura è costantemente aperto nella meditazione gesuitica secondo la drammaturgia degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola con le sue tecniche potenti di visualizzazione mentale.
Fortemente attiva è la memoria letteraria. Ricondotto dallo stesso autore, come si è visto, al genere della tragedia, Hermenegildus (e poi naturalmente Ermegildo) è una tappa significativa della riappropriazione cristiana della tragedia classica e della sua trasformazione in tragedia spirituale o, appunto, cristiana. Caratteristiche salienti sono: il personaggio non mediano, ma tutto positivo, che vive una vicenda di irriducibile conflitto, il doppio rovesciamento che ribalta la fortuna in disgrazia e poi la disgrazia della morte in festa e trionfo, la catarsi esterna che tranquillizza lo spettatore scosso da pietà e da terrore e la catarsi interna che sublima la sofferenza del personaggio figura Christi sono gli elementi di una metamorfosi del genere conforme ai tempi nuovi di cui molti teorici andavano discutendo in quegli anni e all’etica e pedagogia gesuitica.
Minturno, vescovo e padre conciliare, nel suo De Poeta (Venezia, Rampazetum 1559), come scrive Pier Cesare Rivoltella, sostiene che la catarsi va «ad iscriversi nell’orizzonte del sacro. Essa è tanto efficace da far registrare effetti permanenti e definitivi nell’ottica della storia della salvezza» (La scena della sofferenza. Il problema della catarsi tragica nelle teorie drammaturgiche, in «Comunicazioni sociali», XV, 1993, 2-3, p. 149).
La morte è il tema dell’epoca, quello più presente nel teatro del sacro. Nel segno del Cristo essa è rappresentata come soglia che apre alla vita, come rovesciamento del lutto in gloria, come umanità piena assunta nel divino. Nel segno del Cristo re essa riguarda il sovrano la cui pompa funebre viene celebrata nella scena di città, con ampio coinvolgimento di clero e popolo e diventa modello preclaro e catalizzatore di unità, rinnovamento di fede religiosa e di fedeltà politica
In questo ambito di ritualità teatralizzata i gesuiti di Brera sono maestri.
Esempio famoso, testimoniato dalla relazione ufficiale stampata da Melchiorre Malatesta e dalle stampe conservate alla Bertarelli sono le esequie del 1621 per Filippo III, il cui apparato sontuoso in Duomo è realizzato dall’architetto Tolomeo Rinaldi e l’invenzione dell’apparato da Emanuele Tesauro, maestro di retorica, come si è visto, nel collegio di Brera. Struttura praticabile a forma ottogonale, meta in fondo alla navata principale di un percorso di «conoscenza» e di trasformazione da parte del visitatore-partecipe del rito. Classicità e teologia si compenetrano nel progetto retorico che riguarda le statue lungo le navate e sui ripiani del catafalco, allegorie delle città e province, delle virtù morali, dei frutti della monarchia, la lettura orizzontale e verticale della «macchina», gli epigrammi e iscrizioni. La comunicazione e l’efficacia si giocano su livelli diversi di competenza nel decifrare il senso dell’invenzione.
Ancora la morte, nella chiave che si è detto, è al centro dei riti drammatici del venerdì santo gestiti, dopo la riforma delle devozioni pubbliche attuata da Carlo Borromeo, dagli ordini dei barnabiti, dei francescani, e ancora, con grandioso senso della teatralità, dai gesuiti della casa professa di San Fedele ai quali si dovrà, come sostiene Claudio Bernardi, l’innovazione principale della processione dell’Entierro (ovvero sepoltura), rappresentata dalla congregazione del SS. Entierro, fondata nel 1633, alla quale potevano essere affiliati solo i più insigni nobili italiani e spagnoli della città. La processione del venerdì santo, fu a lungo, una delle principali manifestazioni annuali della città. Un avviso di notizie (poi «Gazzetta di Milano») del 1676 la descrive. La statua di Cristo deposto dalla croce sfila sotto ricco baldacchino per le strade della città, seguita dalla statua della vergine della Soledad anch’essa sotto ricco baldacchino, seguita dai penitenti della congregazione vestiti di sacco con pesanti croci, dai padri Cappuccini che portavano i misteri della Passione, dai chierici, da vari cori di «musici, sordine, tamburri e piffani» e stendardi». Grande era la suggestione teatrale della colonna di luce che camminava nelle tenebre della notte milanese, in attesa della luce piena della resurrezione.
7. Sant’Alessandro. Drammaturgia educativa e apparati festivi sul modello dei gesuiti.
Importante centro per lo sviluppo della drammaturgia del sacro fu l’ambiente barnabitico di Sant’Alessandro, articolato nel tempio, la cui costruzione iniziò nel 1602, nella sede del «collegium» o comunità dei Chierici regolari di San Paolo, nelle scuole Arcimbolde.
Il centro, nei pressi del quale abitavano alcune delle più rappresentative famiglie della città, era un importante polo di riferimento delle classi dirigenti della città nel suo complesso, i cui notabili e il cui popolo accorrevano, durante le celebrazioni festive, a vedere gli apparati, in particolare quelli del «carnevale sacralizzato».
Le scuole Arcimbolde, organizzate ad imitazione e in concorrenza con le scuole gesuitiche, in analogia di curricula e metodi, risulta che negli anni Trenta del Seicento erano «fiorite di nobiltà» e orgogliosamente superavano quelle dei gesuiti.
Vi si praticava un sistema educativo basato sull’emulazione. In questo contesto va colto il ruolo dell’espressione teatrale dispiegata nel teatro di scuola e negli apparati festivi. La posizione ufficiale è di prudenza e di condanna per le forme profane e per i rischi morali, ma di fatto la pratica drammatica e spettacolare, controllata e gestita dai padri e dalle loro competenze, è regolare e oggetto di orgogliosa consapevolezza, come attestano le cronache. C’è spazio a fine anno scolastico, a carnevale, durante le elezioni del Principe.
Dunque, tragedie e commedie in latino, di argomento sacro e pio, senza parti femminili, sottoposte al vaglio delle autorità, senza rischi per gli studi, la morale e le finanze, come prescrive la loro «ratio studiorum».
Notevole è il contributo barnabitico alla definizione del progetto secondo cui le arti figurative e il teatro vengono piegati all’obiettivo di educazione civile e religiosa che aveva già espresso autorevoli trattati, primo fra tutti quello di Silvio Antoniano che aveva sottolineato l’efficacia dei sensi del vedere e dell’udire.
Le notizie desunte dalle cronache consentono di delineare uno scenario in cui l’evento teatrale esce dal recinto del collegio e si apre alla città intera e alle sue massime cariche e può passare da saggio che dimostra le competenze acquisite e da trattenimento lecito a una portata più estesa che giustifica repliche e traduzioni in volgare.
Coerente con questa impostazione è l’impegno dei padri di Sant’Alessandro nella annuale realizzazione di sontuosi apparati, di cui le cronache riferiscono con ricchezza di particolari,in occasione della «solemnes exercitationes spirituales (…) in ecclesia nostra (…) ad excitandos ad pietatem animos» e ad opporre «mirifica apparatus pompa» un carnevale sacralizzato «ad avertendos laicorum animos a criminum sordibus, quibus Bacchanalium presertim dierum otiis immundissimus humani generis adversarius eos tentat inquinare».
Il tema è l’immaginario biblico (l’episodio di Sansone, il monte Tabor, Elia, l’uscita del popolo di Egitto…) attinto alla fonte, secondo le rigorose prescrizioni conciliari, e illustrato secondo un progetto retorico che ne sottolinea il senso allegorico, secondo la tradizione ermeneutica ereditata dai Padri della Chiesa e dall’esegesi medievale e riattualizzata dalla Chiesa della Controriforma.
8. Il convento di Sant’Angelo. Santa Maria della Pace. Cenno sul teatro mentale per la meditazione dei fracescani.
Un cenno merita un fenomeno copioso, il cui approfondimento aprirebbe un altro ampio capitolo che non è il momento qui di fare, quello del teatro mentale.
Si tratta dell’elaborazione di testi destinati perlopiù alla lettura e alla meditazione individuale e collettiva redatti in forma drammatica. Questa coi suoi congegni di commozione, con la sollecitazione dell’«immaginativa» del devoto attraverso immagini che «rappresentino più al vivo i misteri che s’hanno da meditare», come scrive Bonaventura Morone, seguono il metodo della composizione del luogo accolto dai maestri della spiritualità che governano l’orazione mentale e gli esercizi spirituali.
Cito solo due autori, in area francescana, di questa vasta produzione: il tarantino osservante riformato Bonaventura Morone, il cui Mortorio di Christo [fig 15] ebbe due edizioni a Milano (1612 e 1615) e Benedetto Cinquanta, frate minore osservante nel convento milanese di Santa Maria della Pace dove fu padre provinciale dal 1617. Molti i suoi lavori drammatici: La Maddalena convertita, La resurrezione di Cristo, Il ricco epulone, Il fariseo e pubblicano, La natività del Signore, S. Agnese, e la molto nota fonte manzoniana: La peste del MDCXXX.
9. Il salone del Palazzo ducale. Tra sacro e profano: l’esperienza di un comico dell’Arte: Giovan Battista Andreini.
Un’esperienza di mediazione, un incrocio fra sacro e profano avviene in un’area per tanti aspetti sospetta e centrifuga: quella dei Comici dell’Arte.
La presenza di «comedianti» organizzati nelle loro troupes professioniste è documentata a Milano fin dalla metà del Cinquecento e regolarmente per tutto il Seicento. Recitano nel periodo del Carnevale e nella stagione estiva. Gli spettacoli di corte riservati a nobili e invitati di rango si tenevano nel salone del Senato sito nel Palazzo Ducale che era anche sede del governatore e poi nel Teatro Reale o Salone Margherita, costruito all’interno nel lato occidentale del cortile del palazzo, nel 1598 per i festeggiamenti in onore di Margherita d’Austria di passaggio a Milano per andare sposa di Filippo III di Spagna.
La presenza del teatro sacro certo non vi era estraneo se vi recitarono per l’occasione i giovani del collegio gesuitico di Brera una tragicommedia, adatta al momento di festa sì, ma anche di lutto per la notizia della morte di Filippo II.
Ma il luogo era quello del teatro profano d’alto bordo.
Fu questo il primo teatro stabile della città, che andò a fuoco all’inizio del Settecento. Al suo posto sorse poi il Teatro Ducale a sua volta distrutto nel 1776. Poi il teatro uscì dal Palazzo e nacque il teatro alla Scala.
Gli spettacoli aperti anche al pubblico si tenevano nel Teatro delle commedie o teatrino, sito nella stessa area.
All’aperto, in piazze, oppure in «sale» o «stanze» o «stanzoni» tenute da gestori, fra cui quella dell’ebreo Angelo Lucchese in contrada Rastrelli, nei pressi del Palazzo Ducale, si tenevano spettacoli popolari.
I Comici dell’Arte a vari livelli si muovevano fra questi spazi.
Fra i più ricercati dalle famiglie nobili e dalle corti per la loro bravura erano i Gelosi in cui recitavano Francesco e Isabella Andreini attivi fra il 1568 e il 1604. Essi si esibirono regolarmente nonostante le difficoltà nate da sospetti, censure, conflitti giurisdizionali fra le autorità ecclesiastiche e le autorità civili.
Figlio della celebre coppia dei Gelosi fu quel Giovan Battista Andreini al quale si deve l’opera di mediazione e di incrocio fra sacro e profano di cui si è detto.
Comico dell’Arte con l’ambizione di legittimarsi come uomo di lettere e di accademia e di accreditarsi come uomo di morale e di fede religiosa e a nobilitare la professione del teatro, l’Andreini pubblicò e recitò a Milano con tutta probabilità nel Salone Margherita l’Adamo e La Maddalena lasciva e penitente [fig 17] Molto significativa è quest’ultima per l’aspetto che ci interessa. Essa fu pubblicata dall’editore Malatesta nel 1652 come testo «consuntivo», cioè trascrizione a posteriori del meglio della vicenda delle rappresentazioni effettuate (che rispondevano alla tradizione dell’Arte all’improvviso).
Certo ci furono ragioni di opportunità nella scelta del tema e nella sua articolazione, ma queste si incrociarono nell’Andreini con sentite inquietudini morali, religiose, esistenziali che sostennero la consonanza di intenti fra un artista e un ambiente.
Il tema della Maddalena, su cui Andreini tornò ripetutamente, calza a pennello.
Su di esso si concentrano problemi spinosi che agitano l’epoca e in particolare la categoria dei teatranti: la vanità del mondo e delle sue pompe, la corporeità fra mortificazione e glorificazione, un modello di conversione fra autodecisione e grazia, la seduzione, il marchio infamante del teatro, fra finzione teatrale e rivelazione di verità, l’ossessione acuta del peccato, il sincretismo classico-cristiano per cui la tragicità della condizione umana soggetta al fato si rovescia nel riscatto e nella salvezza.
In essa si esplica tutta la sapienza dell’Arte: il congegno drammatico, l’apparato scenografico indicato dalle didascalie, le macchine che aprono alla dimensione celeste, le soluzioni coreografiche e gestuali di evidente rilievo intertestuale con l’iconografia coeva, i passaggi dal recitativo al canto.
La Maddalena è personaggio adatto a un teatro sacro che ammicca a quello profano e che ambiguamente intreccia il cliché della meretrice e della amorosa della commedia con il nuovo modello della martire e della santa e un incontro in prospettiva, sempre più evidente, fra sacro e profano in cui il primo si umanizza sempre di più e il secondo si solleva.
Riepilogando
Per concludere, immaginando di guidare un gruppo di turisti attraverso i tempi e i luoghi della città dal tardo Cinquecento alla prima metà del Seicento, ho tracciato un breve profilo della drammaturgia del sacro a Milano nell’età borromaica, sottolineando come essa risponda all’indirizzo teologico dei padri conciliari che, in netta contrapposizione alla Riforma protestante, sostiene l’idea del visibile come mediazione dell’invisibile, promuove una ritualità adatta all’uomo che è anima e corpo (per quanto della prima si dica essere «più eccellente»), salvato da un dio che è anche interamente uomo.
Essa risponde altresì agli sforzi di disciplinamento promossi da Borromeo e attuati dai successori come Carlo Bascapé e di distanza dalle forme contaminate da paganesimo della drammaturgia medievale e dalle forme della drammaturgia profana.
Essa inoltre, nelle sue espressioni più colte, come quelle della drammaturgia gesuitica, avvia un processo di sincretismo culturale che rilegge la cultura, l’antropologia, la filosofia della storia classica in una prospettiva cristiana dando luogo a forme e generi nuovi pur nati nell’alveo della antichità.
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- Annamaria Cascetta, La «spiritual tragedia» e «l’azione devota». Gli ambienti e le forme, in La scena della gloria, cit.
Foto
- Gaudenzio Ferrari, Cristo condotto al calvario, Varallo, Sacro Monte, cappella XXXII (Gentile, p.69)
- Gaudenzio Ferrari, Vecchio che assiste alla crocifissione, Varallo, Sacro Monte, cappella XXXVIII (Gentile, p. 72)
- Gaudenzio Ferrari, Il ladrone buono, Varallo, Sacro Monte, cappella XXXVIII (Testori, XI)
- Gaudenzio Ferrari, La vergine sostenuta da due compagne, Varallo, Sacro Monte, cappella XXXVIII (Gentile, p. 76)
- Giovanni d’Errico, Maria intenta al ricamo, Varallo, sacro Monte, cappella IV (Gentile p. 242)
- Filippo Abbiati, Solenne entrata dell’Arcivescovo in Milano, Duomo (Biscottini, p. 69)
- Fiammenghino, San Carlo in processione col Santo Chiodo, Duomo ( Biscottini, p. 43)
- Traslazione delle reliquie, incisione tratta da Cesare Bonino, (Buzzi-Zardin p. 235)
- Apparato nella piazza di S. Fedele per la canonizzazione di S. Ignazio e S. Francesco Saverio (La scena della gloria, foto 57)
- Tolomeo Rinaldi, Catafalco per Filippo III nel Duomo di Milano 1621 (La scena della gloria, foto 81)
- Processione dell’Entierro di Milano, Civica raccolta delle stampe Bertarelli (La scena della gloria, foto 63)
- Emanuele Tesauro, Hermenegildus, pagina manoscritta (Cascetta 2020, fig. 10 in We transfer 20.11.2020)
- Emanuele Tesauro, Hermenegildus, pagina manoscritta (Cascetta 2020, fig. 9 in We transfer 20.11.2020)
- Francesco Benci, Hergastus, frontespizio (Cascetta 2020, fig. 2) in We transfer 20.11.2020
- Bonaventura Morone, Mortorio di Christo (La scena della gloria, fig. 16)
- Giovan Battista Andreini, L’Adamo (La scena della gloria, fig. 36)
- Giovan Battista Andreini, La Maddalena lasciva e penitente (La scena della gloria, fig. 28)