IL TEATRO A MILANO NEL SECONDO SETTECENTO. Convegno internazionale “La corte asburgica a Milano fra protagonisti e cultura artistica”. Milano- Palazzo Reale, 9-10 aprile 2018.
Una più che ventennale ricerca organicamente promossa e coordinata dalle Cattedre di Storia del teatro dell’Università Cattolica e dell’Università degli Studi di Milano, confluita in una serie di pubblicazioni (v. appendice bibliografica), sta portando alla luce, aldilà di pregiudizi ideologici o stereotipate approssimazioni storiografiche, un quadro articolato e complesso del teatro e della teatralità/ritualità a Milano nel Settecento (e specificamente in età teresiana e giuseppina) Esso rivela una sua originale impronta fra permanenze e discontinuità rispetto all’età precedente e un non trascurabile peso nel graduale processo di transizione verso la nuova sensibilità, gusto, valori e idee.
Rispetto all’età barocca permangono perlopiù le forme della drammaturgia, ma le proporzioni, i contenuti e gli stili cambiano. Ancora viva è la partecipazione alla drammaturgia festiva, cioè alle ritualità civili e religiose, che invadono gli spazi della città tradizionalmente ad esse dedicati, pur con interventi regolatori, ma cresce e si afferma l’aspetto del teatro in senso stretto, sia dei professionisti, sia dei dilettanti, come rito sociale che si celebra nei luoghi deputati sia pubblici sia privati.
Nei tempi forti della festa calendariale o della festa eccezionale legata a particolari occorrenze, i segni dei cortei e degli apparati trasformano l’immagine cittadina: sono ingressi solenni degli arcivescovi, processioni, esequie principesche, entrate di principi in visita e di governatori, feste per le nascite, per le nozze… Ne cito alcune a titolo esemplificativo: il solenne ingresso dell’arcivescovo Gaetano Stampa del 1739 e dell’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli del 1744, la processione per la traslazione del corpo di San Carlo del 1751, gli apparati per le esequie di Carlo VI del 1741, i festeggiamenti per la venuta e dimora in Milano delle altezze reali Maria Teresa d’Austria e Francesco di Lorena sulla via di ritorno verso Vienna del 1739, le feste di giubilo per la nascita di Pietro Leopoldo arciduca d’Austria del 1747, i grandi festeggiamenti fitti di celebrazioni civili e religiose per le nozze arciducali di Ferdinando d’Asburgo e Beatrice d’Este del 1771. Si avvia con questi ultimi la politica teatrale della coppia arciducale, in sintonia con il gusto e la politica culturale di Maria Teresa e con il suo programma festivo in cui, come si sa, la dinastia si autorappresenta (ma che poi Giuseppe II per ragioni ideologiche e di risparmio limiterà). Con predilezione per l’arte lirica, prosperano i ben noti teatri di corte di Hofburg, Schönbrunn, Laxenbourg cui si aggiunge il teatro della porta di Carinzia (Kärntnertortheater). Al teatro Maria Teresa assegna una funzione morale e pedagogica.
Le strade e le piazze di Milano si aprono inoltre alla performatività popolare.
Nei tempi della stagione comica , degli spettacoli, nei tempi liberi delle adunanze all’interno dei palazzi nobiliari, dei salotti di città, delle ville in campagna, delle accademie, nei tempi concessi dal calendario scolastico e dalla “ratio studiorum” ( la fine dell’anno, il Carnevale, o occasioni eccezionali collegate a occorenze festive cittadine) nel teatro di collegio, o nei tempi di formazione delle Scuole della dottrina cristiana, la scena si apre per i professionisti e i dilettanti.
I luoghi sono i seguenti:
il Teatro Ducale ricostruito a palchi nell’area del Palazzo nel 1717, dopo l’incendio del 1708 del Salone Margherita (ma fra il 1708 e il 1717 aveva funzionato un “Teatrino” in un’altra sala del palazzo), e poi anch’esso andato a fuoco nel 1776 per approdare poi alla costruzione su progetto di Piermarini del Teatro alla Scala inaugurato con lo spettacolo L’Europa riconosciuta nel 1778, significativamente esterno alla magione sovrana, ma comunque nei pressi del palazzo reale.
I teatri di collegio, fra cui centro di aggregazione e formazione importante, è il Collegio dei Nobili. Esso fu fondato nel 1574 da Carlo Borromeo con sede nel sito di San Giovanni Evangelista in Porta Nuova, affidato inizialmente ai gesuiti, poi alla congregazione degli Oblati di Sant’Ambrogio voluta dal Borromeo e poi affidato definitivamente ai gesuiti dal Cardinale Visconti su pressioni di Bartolomeo Arese presidente del Senato nel 1684 e da loro tenuto fino alla soppressione del 1773, per passare ai Barnabiti, già amministratori del Convitto Imperiale Longone, fondato da Carlo VI nel 1737 e ristrutturato da Piermarini. c un teatro grande con spazio adatto a macchine e scenografie complesse. Anche l’Universitas di Brera disponeva di uno spazio in cui fare teatro, ma non dedicato. Era il salone interno. I giovani, come scrive il Latuada nel tomo quinto della sua descrizione di Milano ornata con molti disegni (1738) “essendo provveduti de’ più esperti maestri che si ritrovino in questa metropoli e ne danno pubblico attestato nelle Accademie e nelle sceniche rappresentazioni in cui si ammira l’ammaestramento e l’educazione…” (p. 289).
Le sale adibite a spettacoli, i salotti nei palazzi aristocratici della città e nelle residenze di villeggiatura, come la casa della duchessa Vittoria Serbelloni (frequentata dai fratelli Verri, da Parini) , lei stessa attrice, la villa di Turano della marchesa Margherita Litta Calderara, la residenza familiare di Boffalora del conte Giulini per la quale lui stesso compose parecchie opere, il salotto di Maria Bicetti de’ Buttinoni, le ville verriane di Biassono e di Ornago, la villa di Cislago, in cui, ci ricorda Roberta Carpani nel suo studio “Pratiche teatrali del patriziato e dei nobili a Milano” ci fu nel 1777 una piccola stagione teatrale, per non parlare delle sale teatrali realizzate dall’Arciduca Ferdinando d’Austria nella Villa di Monza. Al teatro fa esplicita allusione Pietro Verri in un suo intervento, come si sa, del 1764 sulle delizie della vita in villa pubblicato ne “Il Caffè”.
E poi ci sono le accademie aperte alla drammaturgia: quelle interne ai collegi (le braidensi degli Animosi e degli Arisofi, l’accademia dei Vigorosi al Collegio de’ Nobili), quelle di origine arcade come L’Accademia de’ Trasformati.
Lo statuto della pratica teatrale si trasforma gradualmente. Cresce la passione per il teatro musicale, si interviene sulle modalità organizzative, si teorizza sull’idea di teatro e sulla sua funzione, si rifondano i generi (il genere alto della tragedia, il genere della commedia), si trasforma l’arte dell’attore, si coltiva la competenza dello spettatore discutendo sulle modalità di ricezione dell’esperienza teatrale e educando in contesti meno mondani, come le adunanze private dei palazzi e delle accademie o degli ambienti dei teatri di formazione, all’attenzione, alla compostezza, all’atteggiamento critico. Tutto questo in controtendenza a un corrivo costume dei pubblici teatri oggetto spesso dell’indignazione dei viaggiatori stranieri.
I nobili svolgono una funzione pilota in questa transizione culturale che riconosce al teatro un ruolo primario. Carpani traccia una mappa molto precisa delle pratiche teatrali del patriziato e dei nobili. Emergono gli scambi fra il teatro professionistico e la scena dei dilettanti a diversi livelli: la gestione anche economica e organizzativa della sala pubblica, la partecipazione alla programmazione del Ducale, la protezione di attori, cantanti, danzatori e drammaturghi professionisti, la scrittura di testi per la scena, la partecipazione al dibattito teorico. È nota dai Mèmoires , dalle lettere e da altre testimonianze (di cui si attende ancora un quadro esaustivo) la presenza significativa di Goldoni sui palcoscenici milanesi, l’appoggio che ricevette da Giuseppe Antonio Arconati Visconti, da Margherita Litta Calderara, da Vittoria Serbelloni Ottoboni, da Pietro Verri che lo difese tenacemente nella polemica con Chiari, le letture drammatiche private, l’accoglienza della sua “ricerca drammaturgica chiamata riforma”, per usare un’espressione di Siro Ferrone.
Gli allestimenti spettacolari dei gruppi di dilettanti nelle ville e nei palazzi sono occasione per avvicinare la scrittura teatrale francese contemporanea (si ricordi la traduzione italiana di Destouches ad opera di Maria Vittoria Serbelloni con la collaborazione di Pietro Verri).
In questo “laboratorio” degli spazi privati si sperimentano modi diversi di essere spettatori rispetto a quelli delle sale pubbliche tanto denigrati dai viaggiatori stranieri. Una modalità attenta e competente.
Dove cercare soprattutto in questo scenario in fermento i germi più fecondi che si proiettano sul futuro? Dove trovare una teoria e una pratica teatrale di alto impegno culturale, etico, di formazione civile e spirituale e di progettazione antropologica? Dove cercare l’esperienza di una comunità che in teatro condivide in presenza una proposta artistica densa di senso? Dove si rinvengono i germi che guardano lontano e che per questo, aldilà dell’interesse della ricostruzione storiografica, si saldano con le nostre istanze presenti e giustificano la nostra rivisitazione di quell’epoca?
Può essere utile, per far emergere pur rapidamente, dati i limiti di questa relazione, attraverso l’analisi di casi concreti esemplari, le problematiche di transizione culturale cui si è fatto cenno, soffermarsi sulla vicenda di un genere: la tragedia.
Certo non è sulla tragedia che si accendono più frequentemente e più visibilmente le luci della scena, ma il genere è trasversale a tutti gli ambienti in cui l’impegno intellettuale e culturale è più sostenuto e rigoroso, veri “laboratori” di cultura drammaturgica e civile, si direbbe con moderna terminologia, nell’area del dilettantismo colto, nei ritrovi riservati aristocratici, nelle istituzioni formative.
A Milano si contribuisce al dibattito nazionale e internazionale sul tema fin dall’autorevole riflessione di Ludovico Antonio Muratori, dottore dell’Ambrosiana fra il 1695 e il 1700, spostatosi poi a Modena, autore del classico La perfetta poesia italiana dove si definiscono le regole del nuovo genere, il suo fondamento sulla verità, la sua rilevanza e utilità civile e sociale in polemica con un costume teatrale di mollezza, artificio corruzione. Può diventare il teatro “una dilettevole Scuola de’ buoni costumi, e una soave Cattedra di lezioni Morali”?.
A Milano opera il marchese Giuseppe Gorini Corio che nel suo Trattato della perfetta tragedia insiste sulla credibilità dei caratteri, sulla sua “ragion d’esempio” e ripetutamente usa il termine “ragione”che, nel quadro di una ottimistica antropologia, pare la facoltà che consente di cogliere l’ordine razionale del mondo, fondamento di una morale razionale per la quale alla morte di un innocente non può che seguire la punizione del colpevole.
Sulla tragedia si dibatte nelle Accademie di collegio (ad esempio nell’Accademia dei Vigorosi sui fogli del Caffè e nel carteggio di Pietro e Alessandro Verri).
I filoni sono la tragedia classicista che scivola verso il dramma moderno a lieto fine, la tragedia biblica, la tragedia politica a tematica greca e romana, la tragedia storica.
Il trapasso culturale sta nelle tecniche, nei contenuti, nelle idee.
Del primo tipo, ispirata a Polibio e a Dionigi di Alicarnasso, è ad esempio l’encomiastica Dardano in Frigia, rappresentata con grande risonanza cittadina nell’agosto del 1772 presso il Collegio dei Nobili alla presenza delle Altezze Reali Ferdinando e Beatrice. L’Argomento stampato, ben studiato da Giovanna Zanlonghi, rileva la leggiadria delle scene, la “nobile gravità del recitare”, la “destrezza ne’ cavallereschi esercizi”. Nel trattamento della vicenda e dei caratteri si esprime una nuova sensibilità.
La vicenda narra di Dardano, figlio di dei, che, approdato in Frigia da Creta, è preso a ben volere da Teucro che gli promette la figlia, che Dardano ama, e il regno, senonché un oracolo indica un progetto diverso. La situazione sembra precipitare, ma interviene un nuovo oracolo a svelare l’ambiguità del precedente e a portare al lieto fine: il desti no di Dardano è in Frigia, sposo di Eurimone e re.
Il protagonista è lontano sia dall’eroe antico con la sua forza trasgressiva e prometeica poi di necessità piegata al fato, sia dall’eroe cristiano secondo il modello martiriologico barocco. Il conflitto si sposta nell’intimità (imperativo religioso e affetti): signoreggiare il cuore, certo, ma l’amore è spinta emotiva e drammatica. È chiara l’influenza raciniana e l’intertestualità fra dramma e melodramma.
Il profilo dell’eroe muta: emergono la sensibilità, la vita interiore con le sue nuances, l’introspezione psicologica, i moti interiori, i sinceri affetti, non le passioni generatrici di disordine, ma di scissione e turbamento.
Zanlonghi ben approfondisce la transizione che si esprime negli ambienti intellettuali nostrani (appartenenti alla Compagnia di Gesù, o laici, ma in essa formati comunque, come Pietro Verri) verso una concezione unitaria dell’uomo, della sua struttura psico-fisica, verso la simbiosi fra sensibilità e intelletto, verso la funzione della fantasia che struttura il processo conoscitivo, attenuando così la svalutazione della scuola razionalista secentesca.
Anche la seconda tipologia della tragedia presenta i segni della transizione. È la tragedia biblica. Certo è sulla scia della tragedia spirituale ma è lontana dall’impianto martirologico che aveva avuto in pieno clima controriformistico col ribaltamento del canone aristotelico della “medietà” nel tutto positivo del martire e santo figura Christi e con l’ossimoro del rovesciamento del fine luttuoso in lieto.
Le storie della Bibbia alimentano l’immaginazione, favoriscono l’accesso al Libro, da non molto sdoganato, sostengono la catechesi e la funzione pedagogica nel formare la coscienza del cittadino devoto e dei ceti dirigenti, favoriscono le sperimentazioni del “genere perfettissimo”.
Un esempio interessante è: Sedecia, ultimo re di Giuda di P. Giovanni Granelli, più volte rappresentato in particolare a Milano al Collegio dei Nobili nel Carnevale del 1763, con gran concorso di illustri spettatori. Granelli è personalità di spicco, rettore del Collegio de’ Nobili di Modena, arcade, predicatore quaresimale famoso, chiamato anche a Vienna da Maria Teresa.
Sedecia, ultimo re di Giuda, è in fuga verso l’Egitto. Contravviene al comando di Dio che, avendo a cuore le sorti di Israele, vuole che egli si sottometta a Nabucco e glielo dice attraverso le parole del profeta Geremia. Sedecia si ostina a male interpretare la profezia secondo cui avrebbe finito in pace i suoi giorni e mai avrebbe visto Babilonia.È vero: Nabucco lo prende, gli risparmia la vita, ma lo fa accecare. L’ultima parola è per Geremia che invoca pietà e lieto fine per “Sion dolente”.
“Tutto è tratto con fedeltà dalla Sacra Scrittura”-dichiara Granelli-ma l’analisi (su cui qui non posso dilungarmi, ma ho proposto in altra sede) rivela, pur nell’aderenza al modello, significativi spostamenti coerenti con le aspettative dell’utenza e la temperie dell’epoca settecentesca. Trascuro l’abilità tecnica, lo sforzo di semplificazione pur nella varietà dell’eloquio, l’osmosi col melodramma nelle ariette che sostituiscono i cori…Quel che a noi importa è la gestione di alcuni temi spinosi: l’addomesticamento di una teologia politica in chiave teocratica e le inquietudini di un troppo esigente rapporto con Dio, l’equilibrio nella valutazione critica del potere divino. Il tema è antico. Chiama in causa i nodi del fondamento della potestas, della relazione e dei confini fra i due poteri: Cesare e Dio, chiama in causa l’annoso problema della ragion di stato che mortifica nei raggiri e nel rozzo pragmatismo il nobile compito della regalità e il grande disegno in cui si iscrive.
All’orizzonte c’è ovviamente la piega della monarchia asburgica.
Un ruolo di grande interesse ha la terza tipologia: la tragedia politica. Ho scelto di accennare al caso de La mort de César, emblematico dell’apertura della cultura teatrale milanese verso la cultura francese, di cui la rete di relazioni molteplici intrattenute da Voltaire è imprescindibile snodo. Esso è altresì emblematico dell’attenzione prudente degli ambienti formativi gesuitici agli sviluppi della cultura politica e antropologica, presenti in intellettuali di temperamento indipendente e emblematico della tendenza da parte di drammaturghi di impostazione neoclassica di filtrare una drammaturgia affascinante, ma ostica al gusto settecentesco come quella shakespeariana con le sue “barbare irregolarità”, una drammaturgia che pure affascina i Verri.
A Milano La mort de César fu rappresentata al Collegio dei Nobili nel carnevale del 1773 in lingua francese secondo il programma pedagogico in vigore dagli anni sessanta che contemplava l’uso della lingua francese.
Gli spostamenti rispetto alla fonte shakespeariana non sono solo significativi sul piano della tecnica formale, comunque di grande rilievo, ma soprattutto sul piano del trattamento della figura di Cesare, centro di attenzione di Voltaire.
Cesare sarà re. Così annuncia Antonio, ma Cesare lo frena. Bruto, qui figlio di sangue di Cesare, implacabile nemico del potere regale, lo osteggia. Cesare lo ammira, ma è irritato dalla sua intransigenza. Eppure “Si je n’étois César, j’aurais été Brutus”. In un teso, accorato confronto, bruto cerca di convincere Cesare a rinunciare al diadema. Ma Cesare ribatte che Roma chiede un capo. È un colosso fragile di cui il mondo ha paura, ma che ha bisogno del suo braccio per tenere alta la sua testa. I tempi sono cambiati. La forma di governo deve seguire l’esigenza dei tempi. Intensa commozione. Inevitabile separazione. Cesare corre in Senato verso il suo destino e cade dietro le quinte.
Diversa è la preparazione della decisione da parte di Cesare di andare in Senato. Cesare che in Shakespeare non è simpatico, ha persino aspetti ridicoli nell’imporre la sua maschera pubblica, dà credito alle voci dei prodigi e degli auguri. In Voltaire è un Cesare problematico, consapevole, ambizioso, sollecito di adempiere a un compito pubblico che non può essere differito. Severa è la figura di Cesare, come rassegnato alla soluzione della regalità, ottimale per quel frangente storico.
Ciò che ispira il francese è la problematica del dispotismo illuminato e del paternalismo della regalità. Ciò che ispira l’inglese è l’intollerabilità del potere assoluto e violento e la lucida percezione degli intrighi, delle doppiezze, dell’invidia e sete di vendetta che guidano il cuore umano.
Il Cesare di Voltaire è umano, prudente, conosce le ragioni del cuore (“coeur” è parola chiave del testo), le ragioni dell’amicizia, dell’amore paterno. È ambizioso, ha la passione della conquista e della vittoria, ma non è accecato e frena, senza arroganza, le fughe in avanti altrui, conosce la fragilità del destino degli uomini e degli stati. È perspicace, onesto nel valutare se stesso e i suoi rapporti. Bruto lo irrita, ma gli piace.
Niente di più adatto nella Milano dell’età teresiana in un contesto che è fedele e che tuttavia pensa.
Vorrei concludere questa breve panoramica con un cenno a come il teatro del secondo Settecento milanese incrocia alcune delle questioni spinose e addirittura esplosive di questo trapasso d’epoca destinate a proiettarsi sul futuro con un’onda lunga e un effetto a cascata. Alludo in particolare alla questione della giustizia portata in primo piano dall’opera di Cesare Beccaria e dalla riflessione del gruppo dell’Accademia dei Pugni e del Caffè. Ho avuto modo di trattarne in altra sede nel quadro della ricerca di cui si diceva cominciando.
Se e quale contributo dà la cultura teatrale al movimento di idee attivo in questo arco di tempo, che rinforza la volontà di giustizia (giustizia, diritto e legalità sono concetti che non si identificano come si sa), chiarisce la natura della giustizia e si prepara a modificare la vita? Quanto contribuisce il teatro, occupazione abituale, ad alimentare la coscienza di quegli intellettuali che riflettono sul tema e si aspettano di avere un ruolo negli orientamenti di governo?
Qui navighiamo più che su dati certi documentari su indizi, ipotesi, ma credo sicuramente fondati sui temi di testi e opere in musica editi e rappresentati, sugli scambi epistolari o recensioni di testi e spettacoli da parte di intellettuali in prima linea su questo problema, come Beccaria, su prese di posizione, su consuetudini rituali-spettacolari che inducono ormai indignazione e rifiuto, come il cerimoniale dei supplizi.
A questo proposito in Ecuba, tragedia di Giuseppe Gorini Corio ristampata a Milano nel 1744 e con ampia fortuna di lettura (“Non evvi ancora chi abbia letta ed udita questa tragedia che non se ne sia intenerito fino alle lacrime”, scrive l’autore) la descrizione (anacronistica) del sacrificio allestito per Polissena innocente, fatta dal messo, richiama con efficacia e emozione il triste rituale dei supplizi. Vi si sente il disagio verso un rituale che apparteneva all’esperienza cittadina. Ironica disapprovazione si manifesta verso la morbosa curiosità della folla nei confronti della sofferenza corporale. Essa è rappresentazione pubblica, atto di “giustizia” leggibile da tutti, liturgia circondata di fasto, cerimonia legittimata dal potere religioso e politico il cui corpo vuole essere riconciliato.
È il pubblico, come dirà poi Foucault nel suo imprescindibile libro Surveiller et punir, il personaggio principale di questo teatro, vellicato nei suoi istinti, ambiguamente testimone e garante e contemporaneamente massa fremente e pericolosa.
Sarà la lucidità e il coraggio di Cesare Beccaria e del gruppo a cui fa riferimento a stigmatizzare la tradizione di questo teatro della giustizia nei cruciali anni sessanta del secolo nel famoso capitolo XXVIII del Dei delitti e delle pene. Premesso che il fine della pena non sta nell’affliggere un essere sensibile, o nel fare la guerra ai cittadini, o “disfare” un delitto commesso, ma impedire al reo di recare nuovi danni ai cittadini e che è essenziale la proporzione fra il delitto e la pena (già premesso nel capitolo XXVII) Beccaria scrive che “uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi”. Beccaria è esperto della tradizione della tragedia, colto e appassionato spettatore di teatro per tutta la sua vita, anche nel suo viaggio a Parigi, passando per Lione, amico epistolare di Voltaire di cui ammira la produzione tragica (pensiamo a Tancrède), con cui discute sulle esperienze di ingiustizia messe in campo da un potere legiferante ombroso e pauroso. Egli sa che la pena di morte che diviene spettacolo è un passeggero spettacolo e che “passioni violente sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo” e come tali non sono in grado di incidere durevolmente.
C’è sottinteso l’antico tema della catarsi tragica, una purgazione, ma sorretta dall’alta guida del logos (come insegnava Aristotele). In questi rozzi spettacoli manca la distillazione di quel sapere, che attraverso l’altezza del logos, del testo appunto, accompagnava nell’arte l’effetto catartico.
Inoltre il teatro dei testi in più di una occasione, affrontando il tema della giustizia del re, mette in scena un personaggio che rappresenta un re clemente, equilibrato, a misura d’uomo che è contemporaneamente omaggio per un sovrano amato e apprezzato e auspicio e sprone.
Due esempi al volo
Uno è il già citato testo di Giuseppe Gorini Corio, Le Troadi, pubblicato a Milano nel 1761 dopo una lunga esperienza della giustizia anche sulla propria pelle e dopo il trattato Politica, diritto e religione. Si tratta di una riscrittura che contamina la fonte greca euripidea con la fonte francese raciniana non tanto e non solo in funzione del patetico, ma in funzione di una più moderna e matura riflessione sul rapporto fra regalità e giustizia contrapponendo Agamennone/Pirro a Ulisse/Polinestore nella gestione dei rapporti col vinto Pirro e con la sorte della sua discendenza: il piccolo Astianatte condannato al sacrificio.
Se la giustizia è la ragion d’essere della regalità, ma anche il fardello dell’autorità, può essa piegarsi al populismo che si accattiva il favore di un popolo egoista (i Greci che attendono di salpare) commettendo un misfatto? Può appoggiarsi agli intrighi, all’ambizione arrogante? Può trincerarsi dietro una presunta autorità superiore?
Un altro testo eloquente è il dramma per musica di Metastasio La clemenza di Tito rappresentato nel carnevale del 1767 nel Regio Ducal Teatro, intonato da Ignazio Platania con scenografia dei fratelli Galliari, su libretto dedicato al duca di Modena (consultabile nella Biblioteca del Conservatorio di Bologna).
Ho svolto in altra sede un’analisi cui rinvio nella chiave della giustizia del libretto e anche delle varianti significative operate per l’occorrenza milanese.
Mi limito a dire, in chiusura, che esso offre, attraverso il personaggio di Tito, complesso e sfaccettato, non convenzionale, l’immagine di una giustizia del sovrano orientata più alla clemenza che al rigore, che supera l’arcaica modalità della vendetta.
Essa calza con un’idea della sovranità incarnata da Maria Teresa e coerente con l’immagine che ella ci tiene a restituire. È una sovranità paterna e materna, sollecita dei sudditi, esercitata con benevolenza e moderazione, impegnata nella riforma di organi di giustizia e in provvedimenti di clemenza che non sono dettati dai salti radicali propugnati dai “philosophes” che non sono nelle corde di Maria Teresa, ma dal buon senso, dalla graduale prudenza e dal rispetto della tradizione.
Ignari della tempesta che si avvicinava gli intellettuali aristocratici e funzionari milanesi credono e operano per una transizione graduale, pacifica e concorde sorretta da una cultura impegnata.
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